L’approccio all’universo carcerario si fonda su un tale ventaglio di motivazioni e modalità, che vanno, semplicisticamente, dal mero prurito suscitato dalla curiosità alla totale empatia che sfocia a volte nell’innamoramento, che “di fronte alla complessità di un’istituzione come il carcere, al dolore delle storie recluse, a questioni che richiederebbero analisi piuttosto che sentenze, ci vorrebbe cautela”. [1]

Parlo, ovviamente, dell’avvicinarsi più o meno casuale delle persone comuni, perché gli operatori professionali, siano essi guardie carcerarie, giudici tutelari o psico-criminologi, sono guidati da ben altri stimoli e soprattutto doveri.

Cautela, attenzione, silenzio, che, quando sono atteggiamenti radicati interiormente e applicati nei propri comportamenti, dovrebbero in verità costituire soltanto il primo passo per chi si interessa a questo mondo con intendimento aperto all’imprevedibile. Primo passo destinato a convertirsi ben presto in quella dirompente domanda che papa Francesco, in occasione delle sue visite, più volte ha mirabilmente sintetizzato così: “Perché lui e non io? Merito io più di lui che sta qui dentro? Perché lui è caduto e io no?” [2] e che non può non affiorare alla mente se le intenzioni sono rette e riflessive.

Con questo non voglio minimamente sorvolare sulla complessissima questione dei delitti, delle punizioni, delle pene, del risarcimento, del rispetto delle vittime e, senza fare un lungo elenco, di tutto quanto è legato all’atto del delinquere, ma affrontare l’argomento sotto l’ottica utilizzata anche dal giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia nel 1990, quando sosteneva che la giustizia è necessaria, ma non è sufficiente. Per cui, sì, necessità della giustizia, ma al contempo necessità di un superamento della giustizia stessa. E concludeva: “Il Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere «giusti», anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha invece elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta”.

Con questi presupposti ho varcato per la prima volta, ormai diversi anni fa, le porte di un istituto di pena.

Ho incontrato molti “utenti”, come si dice in politically correct, ho imparato ben presto che uno (non l’unico, per fortuna) dei tratti distintivi del rapportarsi è la menzogna, o meglio la totale fluidità nella lettura dei fatti, che possono essere bianchi o neri a seconda delle convenienze e, comunque, sempre grigi e mai inequivocabilmente descrivibili. Non ho mai fatto domande, non ho mai voluto sapere come stavano le cose, non ho fatto ricerche su Google, non ho chiesto spiegazioni. E questa è stata la mia salvezza. Sincera gratuità, quantomeno nelle intenzioni: nessun secondo fine, anche fosse nobile. Dentro il carcere non ho un compito, un obiettivo da raggiungere, una carriera da perseguire, non devo nemmeno salvare nessuno e nessuno mai si redimerà per merito mio. Ho semplicemente trattato con persone e non con detenuti. Tutto qui.

Alla domanda: perché lui e non io? non so rispondere. Ma so rispondere alla domanda: chi è lui e chi sono io? Esseri umani che, ciascuno per conto proprio e qualche volta insieme, portano il peso di attraversare la vita, con tutti gli sbagli che questo comporta, con tutti i guai che si possono combinare, ma che al tempo stesso, come cantava un mio caro amico, sono “un dono del Cielo per questa povera Terra”. Consapevolmente o inconsapevolmente.

Tutto questo, lo ripeto ancora, senza voler minimizzare o ridurre a una battuta la ciclopica complessità del mondo della Giustizia. Ma con un impeto di lirismo, quello sì. Perché ho avuto la grande occasione di imparare che l’altro è uguale a me, anzi che non esiste alterità, ma solo (benedetta) diversità nell’uguaglianza. Tu sei uguale a me perché lo sei, io sono uguale a te perché lo sono. Poi ognuno ha fatto o farà quello che ritiene, quello che sa, che può, che riesce, quello che non è stato capace di non fare, ma questo non inficia in nessun modo la sostanza che ci costituisce e che ci fa uguali. A prescindere.

Mite Balduzzi

Florencia (Italia)

[1] [https://ristretti.org/ergastolo-ostativo-e-41bis-nel-frullatore-di-report]
[2] [https://www.avvenire.it/papa/pagine/papa-francesco-e-il-carcere]
[3] [Rosario Livatino: Conferenza tenuta il 30 aprile 1986 a Canicattì]
WhatsApp
Facebook
Twitter
LinkedIn
Telegram
Email
Facebook